– di Gianluca Montinaro

Correva la fine degli anni Settanta e il giovane Maurizio Zanella aveva da poco iniziato a muovere i primi passi di quel percorso che lo avrebbe portato alla scoperta delle potenzialità del territorio morenico della Franciacorta. E che avrebbe aperto la strada alla fortuna di Ca’ del Bosco prima, e di queste terre benedette con le loro numerose aziende vinicole poi.

Durante i suoi viaggi in Francia, Zanella era rimasto colpito dalla Champagne. E, pensando ai vini di quelle terre, mise a fuoco (anche grazie all’aiuto di André Dubois) quello che oggi conosciamo come ‘stile Ca’ del Bosco’. Ma rimase colpito anche dalla Borgogna, con la sua storia millenaria e i suoi mitici cru. Volle quindi provare a vinificare vini fermi, secondo stile borgognone. Ma se vigne di Pinot Nero erano già presenti nella proprietà di Ca’ del Bosco, non ce n’erano invece di Chardonnay che peraltro – a quell’epoca – neppure poteva entrare nel taglio del Franciacorta. Ne piantò quindi una piccola vigna, appena mezzo ettaro: «un fazzoletto di terra – chiosa Stefano Capelli, attuale enologo di Ca’ del Bosco – immerso nei boschi di castagni e querce (selva) sulla collina che sovrasta la cantina, ove nel passato sorgeva una ‘tesa’: un appostamento di caccia per la cattura di uccelli vivi da richiamo». Era – all’epoca – un vigneto ‘sperimentale’, piantato con una densità mai vista prima in Italia: diecimila ceppi per ettaro. E proprio per questo motivo venne scelta questa localizzazione «quasi segreta, lontano da strade: era il luogo perfetto per poter sperimentare le nuove tecniche agronomiche ai tempi conosciute solo a livello teorico».

Nel 1983 (si badi bene: sempre nel ’83 Gaja vinificava la prima annata di Gaia & Rey), grazie all’amichevole collaborazione del mitico André Tchelistcheff (colui che ha reso grande Napa Valley) Zanella procedette a vinificare per la prima volta il suo Chardonnay, utilizzando piccole botti di rovere (pièces bourguignonne). Ugualmente – sempre in quell’anno – vide la luce la prima annata di Pinéro, altra etichetta ‘borgognona’ di Ca’ del Bosco. Per l’epoca fu una novità, rappresentando «un punto di svolta nella produzione di Ca’ del Bosco e l’inizio di un nuovo approccio alla viticoltura di qualità».

Se, fino agli inizi degli anni Duemila le uve di questa etichetta – che era stata battezzata semplicemente: Chardonnay – provenivano solamente da questo primo vigneto, nel frattempo denominato ‘della Tesa’, entrarono poi nella composizione anche i vigneti in località Castello, a Passirano, e la Vigna San Carlo, a Provaglio d’Iseo, per arricchire il vino in complessità e vivacità. «E proprio – continua Capelli – per esaltare il carattere delle uve di queste vigne la vinificazione ha continuato, come all’inizio, ad avvenire in piccole botti di rovere dove il vino rimane per circa dieci mesi. Qui, grazie alla permeazione di ossigeno attraverso le doghe, alla permanenza sulla polpa delle uve, al contatto con le sue fecce e i suoi lieviti, alla fermentazione malolattica, il gusto di questo vino si eleva divenendo, in un certo senso, ‘fluttuante’: si crea una specie di tessitura burrosa oleosa che ne rafforza il gusto e lo irrobustisce».

Adesso – con l’annata 2019, appena uscita in commercio, dopo tre anni e mezzo di affinamento in bottiglia – Chardonnay (Curtefranca Doc), cambia nome, diventando Selva della Tesa (Sebino Chardonnay Igt): per rafforzarne ancor di più l’identità e per celebrare, a distanza di quarant’anni, la lungimiranza di quel sogno. Chardonnay è, da sempre, noto per essere un vino da lunghissimo invecchiamento. Chi scrive ha avuto spesso l’occasione di assaggiare, anche in tempi recenti, bottiglie degli anni Novanta e dei primi Duemila, rimanendo sempre colpito dalla loro vivace sontuosità che, idealmente, si rifà a Meursault e ai suoi vini pieni e grassi ma, al contempo, affilati e minerali. Doti che Chardonnay non perde nell’invecchiamento ma anzi enfatizza ulteriormente, sfoderando un nerbo minerale di eleganza estrema. Ebbene, l’uscita di Selva della Tesa 2019 è stata l’occasione per verificare ancora una volta tali assunti, in un assaggio comparato con l’annata 2011.

Il 2019 (che proviene da otto vigneti, età media 35 anni) si presenta in tutta la sua irruente giovinezza. Colore giallo dorato brillante. Naso pieno e scalpitante, fra nuance floreali e fruttate, sensazioni di erbaceo, una forte (e sin quasi compressa) verticalità e una speziatura elegantissima. Una volta in bocca il vino tende ad allargarsi, soprattutto dopo averlo fatto debitamente roteare sul palato. Così, quasi ‘spalmato’, assume una leggibilità più ‘rilassata’ e una armonia più ritmata, fra note di freschezza e di mineralità e belle sensazioni pseudocaloriche che costruiscono una trama di media corpo, di notevole intensità, di perfetto equilibrio e di lunghezza impressionante, secondo una percezione di eleganza ampia e complessiva.

Il 2011 (giovandosi di un maggior tempo di ‘distensione’) appare in una forma smagliante. Al naso il bouquet è sontuoso. I fiori sono gialli, fra ginestra e gelsomino. Il frutto prende le agrumate forme dell’agrume leggermente candito ma anche della pesca gialla, spruzzata da note tropicali. Modulate con eleganza ecco poi le spezie: vaniglia e pepe bianco su tutto. Eppoi burro, nocciola, e una punta di rinfrescante zenzero. A sostenere il tutto sentori di polvere pirica e di selce. In bocca il vino appare morbido, senza essere eccessivamente caldo, e colpisce per una freschezza che in nulla dimostra i suoi anni. Il sorso, ricco di materia e di verticale mineralità (con quest’ultima che non sopravanza né si sovrappone all’acidità), racconta di un vino di medio corpo, intenso e ampio senza essere ridondante. E con persistenza oltremodo lunga e fine. L’armonia, in chiusura, è perfetta: sferica e gratificante. In sintesi: un vino mondiale!

  • Ca’ del Bosco
  • Via Albano Zanella, 13
  • Erbusco (Bs)
  • Tel. 030.7766111
  • www.cadelbosco.com
  • cadelbosco@cadelbosco.com