– di Gianluca Montinaro

«Il giorno dopo, in mia assenza, con un tempo oltremodo umido e piovoso ma mite, i servi piantarono nell’orto vicino, sempre in pergolato, tralci di uva duracina». È Francesco Petrarca a scrivere queste righe, nulla di più che brevissime note, da lui stesso intitolate Osservazioni sull’agricoltura. Questi appunti, che sono stati rinvenuti in coda a un codice (ora conservato presso la Biblioteca Vaticana) contenente l’Opus agriculturae di Rutilio Palladio, un autore classico del IV secolo d.C. molto amato dallo scrittore aretino, oltre a confermarci l’interesse che Petrarca nutriva per la natura e le pratiche agricole, contengono diversi accenni a piante, ortaggi e frutti. L’«uva duracina» è uno di questi. Ora, a quasi sette secoli di distanza, è arduo individuare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la tipologia di uva alla quale si riferiva Petrarca. Ma l’aggettivo con la quale la qualifica – «duracina» – ci dice che questa varietà era distinguibile dalle altre per la sua ‘durezza’. È bello congetturare: chissà di che uva si trattava… Niente però ci impedisce di immaginare che, nei terreni circostanti la sua casa-biblioteca sui Colli Euganei, il sommo poeta abbia fatto piantare alcuni ‘antenati’ di quel vitigno che oggi noi conosciamo come Durella. In fondo la patria di quest’ultima, i Monti Lessini, non è troppo distante da Arquà, e sono noti i rapporti privilegiati che Petrarca intratteneva con Verona e il suo reggitore, Cansignorio della Scala.

La presenza della Durella è – difatti – attestata da secoli in Lessinia e nelle valli d’Illasi e d’Alpone (quindi su terreni di origine vulcanica, ricchi di basalto e tufo); ed è nota la compattezza della sua buccia, oltre che la sua spiccata acidità e la sua ricchezza polifenolica. Seppur rustica e di buona resistenza alle malattie, di grande vigoria e di ottima produttività, la Durella necessita di alcune accortezze: buona esposizione, ricambio d’aria costante e terreni drenanti. Se tutte queste condizioni si verificano allora l’uva (che in passato veniva perlopiù utilizzata per tagliare vini fermi o basi spumante) si presta alla produzione di vini di qualità superiore, soprattutto in versione metodo classico.

Pioniere, in questa avventura, fu Guerrino Fongaro che, nel 1975, fondò, a Roncà (Vr), la cantina che ancora oggi porta il nome della sua famiglia. E lo fece introducendo alcune innovazioni ritenute visionarie per l’epoca: vigneti di nuova concezione, impianti di irrigazione a goccia, reti antigrandine per proteggere i raccolti. Il passo successivo avvenne dieci anni più tardi quando trasformò in regime biologico la propria azienda: una delle prime non solo del Veneto ma di tutta l’Italia. Una scelta – quindi – sin da subito improntata a pregio e personalità che né la scomparsa di Guerrino Fongaro né il totale passaggio di proprietà alla famiglia Danese ha messo in discussione. E anzi proprio la giovane Tanita Danese – sguardo franco, sorriso sincero e passione da vendere – sta ancor di più cercando di alzare l’asticella della qualità, in una ricerca di perfezione stilistica che ha pochi eguali. Si pensi che tutti i vini ‘firmati’ Fongaro sono millesimati; tutti hanno lunghe permanenze sui lieviti (da un minimo di 36 a un massimo di 85 mesi: e difatti tutte le etichette, tranne una, sono Riserva); tutti condividono – come tratto comune – la ricerca dell’espressione primaria dell’uva (tanto dal punto di vista aromatico quanto gustativo, ma «d’altronde – dice Tanita – è la Durella che mangia i lieviti e non il contrario!») più che dei processi fermentativi e ossidativi.

Nel corso dell’ultimo Vinitaly si è avuta l’occasione di assaggiare, guidati da Tanita, l’intera gamma. Che si apre con l’‘etichetta d’ingresso’ di Fongaro: la Cuvée Extra Brut Metodo Classico 2020 Vsq. Si tratta di un vino che Tanita ha pensato per avvicinare in modo ‘dolce’ il pubblico alla Durella. In effetti è un uvaggio composto per il 70% dall’uva lessina e per il rimanente da Chardonnay e Incrocio Manzoni in parti eguali. Dopo tre anni sui lieviti la Cuvée si presenta con una bollicina fine e persistente, spiccate note floreali e fruttate e una piacevolezza di beva che si basa principalmente su note di soave freschezza arrotondate dal corpo dello Chardonnay e approfondite dall’apporto aromatico dell’Incrocio Manzoni. Colpisce di questa bottiglia la lunghezza gusto-olfattiva che, seppur non ampia, spazia con pulizia e nettezza, tenendo in bella tensione tutto il sorso.

Viola Brut Metodo Classico Lessini Durella Riserva 2018 Doc ci porta totalmente nel mondo della Durella, con 48 mesi sui lieviti e un dosaggio pari a 5g/l. La bollicina se ne giova, e appare un poco più cremosa. Come se ne giova il naso che, seppur non larghissimo, è invece assai fine e persistente, nel suo rincorrersi di note agrumate e di pesca noce, di zagara e di acacia, appena screziate da lievi sentori erbacei che rimandano al timo limonato. In bocca è un’esplosione di frutta a polpa, fresca e croccante, accompagnata tanto da una bella scia minerale quanto da una struttura di medio corpo che si mostra in grado di equilibrare l’acidità, guidando la beva con pulizia e piacevolezza.

Curiosi di conoscere come sarebbe il vino senza dosaggio? Nessun problema: Viola diventa Verde, ovvero stesso vino ma in versione pas dosé. Se il naso rimane all’incirca simile (forse senza la nota di acacia, ma con un nonnulla in più di erbaceo e una verticalità più percepibile) la bocca muta sensibilmente. Il vino diventa affilato come una lama: non che aumenti la sensazione di acidità ma appare più in evidenza la sapidità che, come una trama, lega fra loro le durezze e le morbidezze in un fraseggio ampio e complesso. Se fatto roteare il sorso sul palato si avvertono, in sequenza, freschezza, calore e infine una piacevole cremosità che allarga l’espressività del vino e lo accompagna in fondo di bocca, con eleganza, equilibrio e lunghezza.

Ma il vertice si raggiunge con Nera Brut e Nera Pas Dosé, entrambi Metodo Classico Lessini Durella Riserva 2015 Doc. 85 mesi sui lieviti per due vini che si presentano, visivamente, di un bellissimo color giallo paglierino e con una bollicina finissima e persistente. Il naso è ampio, complesso e lungo, con i fiori (zagara, acacia, sambuco…) e la frutta (limone, arancia sanguinella, chinotto, pesca noce, ananas…) a vestire il ruolo dei protagonisti. Attorno ecco poi danzare lievi note erbacee (sia di erbe aromatiche sia di profumi di prato), un leggero tocco di spezia bianca accompagnati da una delicata fragranza e da una mineralità superba e complessa (più avvertibile nel dosaggio zero che nella versione Brut). Ancora una volta è la bocca a fare la differenza, in un quadro al contempo elegante e potente. La versione Brut è maestosa: fresca e minerale si muove fra molteplici avvolgenze e morbidezze date da una struttura piena e integrata che tende a esprimersi tanto in larghezza quanto in lunghezza (la persistenza gusto-olfattiva pare interminabile, in un quadro di sommo equilibrio). Nel Pas Dosé si avvertono, vive e guizzanti, tanto la freschezza quanto la sapidità con un allungo equilibrato, intenso, persistente e finissimo che tratteggia un vino dal corpo ben proporzionato e di somma piacevolezza (e pure qui la pai è interminabile).

Ma – come sanno bene gli intenditori – la riprova della qualità di una bollicina si ha con il trascorrere degli anni, valutando lo sviluppo del vino in bottiglia. È proprio qui che si comprende se il vino ha le caratteristiche del maratoneta. Se tutte le componenti evolvono contemporaneamente e lentamente il vino acquista in complessità, altrimenti è destinato a vita brevissima. Ebbene, proprio per questa degustazione Tanita ha aperto una magnum di Nera Pas Dosé 2010. Difficile descrivere questo vino se non facendo riferimento all’emozione. Perché un’emozione è stato il naso, con il suo straordinario bouquet, quantomai ampio ed elegante, di profumi, improntati alla frutta a polpa (pesca, albicocca, mela renetta, qualche spunto agrumato ed esotico…), ai fiori (acacia, sambuco, zagara, ginestra…), alle erbe (netta è la sensazione di fieno maggengo) intessuti di richiami speziati, di lievi sentori di pasticceria e di una finissima verticalità. E una emozione è stata la bocca, tanto il vino è cremoso e fresco al contempo. Con soave eleganza impronta le parti morbide a una espressività di sottofondo e lascia in primo piano la sapidità. Quest’ultima, elegantissima, porta il sorso in centro di bocca: qui il vino si apre con intensità e persistenza. Una sensazione di cremosità sposta di nuovo l’attenzione sulle sensazioni pseudocaloriche che, in dialogo con le durezze, creano una armonia di invidiabile complessità, fatta di picchi e contrappunti. Ecco ancora la mineralità a chiudere il sorso con pulizia, sviluppando una persistenza gusto-olfattiva che pare non finire mai.

  • Fongaro
  • Via Motto Piane, 12
  • Roncà (Vr)
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