– di Gianluca Montinaro

«Siamo nani sulle spalle di giganti» dicevano gli umanisti, impegnati nella riscoperta della cultura classica, fra XIV e XV secolo. E se lo ripetevano l’un altro sia per rammentarsi l’immensa grandezza della classicità. Sia per ricordarsi che, seppur più ‘piccoli’ rispetto a Tucidide e Demostene, Cicerone e Tito Livio, avevano una enorme responsabilità umana e morale. L’‘essere sulle spalle’ – infatti – permetteva loro di vedere più lontano, anche rispetto agli stessi giganti, «non certo per acutezza della vista o altezza del corpo, ma perché portati in alto dalla grandezza dei giganti». E, grazie a quella visione più ‘completa’ e più ‘consapevole’, di poter ‘trasmettere’ un sapere più ‘utile’ e più ‘profondo’ agli altri uomini.

Ecco, questa metafora – che tanto cara fu a Lorenzo Valla e Poggio Bracciolini, a Leonardo Bruni e Leon Battista Alberti – penso che ben si attagli pure a Davide Oldani: uno chef che – oltre a essere un ottimo cuoco (un «artigiano intraprendente», consapevole che il valore del proprio lavoro risiede «nel saper fare») – è un individuo saggio e lungimirante. Conscio da un lato dell’importanza di tener fede ai valori profondi dell’uomo («prima di essere bravi cuochi o capaci ristoratori bisogna essere buone persone», scrive Oldani nel suo ultimo libro, Visioni Pop, Colognola ai Colli, Gribaudo, 2023, pp. 180, 16.90 euro). E, dall’altro, della necessità di costruirsi, con impegno e dedizione, ma pure con passione ed entusiasmo, un solido background di conoscenze: «avere come riferimento costante la cucina classica è ciò che, nello sperimentare il nuovo, crea la differenza tra capacità innovativa e semplice concessione alla stravaganza. Tra metodo e licenza, in sostanza».

Sì, è un umanista Davide Oldani. Convinto della grandezza dei Maestri (quelli con cui ha avuto la ventura di formarsi: Ducasse, Roux e, su tutti, Gualtiero Marchesi) ma pure dell’importanza di arrischiarsi nella reinterpretazione e nel miglioramento di ricette classiche e tecniche consolidate. Cosciente che sogni e passioni siano fondamentali ma che vadano vissuti «coi piedi ben piantati per terra» (o – per dirlo ancora con le sue parole – con lo spirito del «maratoneta, più che del centometrista. Uno che resiste, che vince perché porta a termine, perché gareggia fino all’ultimo con se stesso e poi, una volta arrivato, ha ancora voglia di andare»). Consapevole del valore di formare i giovani. E quindi di motivarli trasmettendo loro «assieme ai fondamentali della cucina, quei valori che sono le miei fondamenta: spirito di adattamento, pazienza, senso di responsabilità, coerenza, rispetto, libertà: il tutto possibilmente nella bellezza».

Vacue parole, quelle di Oldani? No. Ed è sufficiente sedersi nel suo ristorante – D’O, nella piazzetta di San Pietro all’Olmo (Cornaredo, Milano) – per percepire che ‘dietro’ la bellezza dell’esperienza c’è davvero qualcosa di profondamente ‘umanistico’. Accomodarsi al D’O riconcilia non solo con il piacere della buona tavola (ça va sans dire…) ma con il più generale piacere del ‘sentirsi bene’. Mi spiego. L’atmosfera è bella, i sorrisi sono sinceri, le parole sensate e misurate. Come sensati e misurati sono i piatti che raccontano, con limpida chiarezza espressiva, una grande cucina italiana nel gusto (Oldani ha palato!), classica nella fattura, moderna nell’esecuzione. Chi cercasse qui quegli ‘spunti’ e quelle ‘spinte’ che spesso ora si incontrano nelle proposte di giovani cuochi rimarrebbe – per fortuna, dico io! – deluso. Le pietanze, che vivono di «contrasti equilibrati: nessun elemento prevale prepotentemente sugli altri», paiono muoversi su una medesima linea di piacevolezza gustativa, completa e complessa, improntata a stagionalità e soddisfazione (per dirla con chiarezza: sono piatti che non stancano, si mangiano oggi e tranquillamente si possono mangiare di nuovo il giorno successivo, con altrettanto piacere).

Sicché si può – per esempio – iniziare da una capatina in Veneto, con un Asparago bianco di Bassano accompagnato da pesto ligure. Saltare fra Milano e la Sicilia con gli spaghetti freddi «alla milanesa». Spostarsi in Puglia per ‘montare’ un piatto di orecchiette con molluschi crudi. Tornare nel Nord Italia per gustare un risotto ai piselli e germogli con lumache di Cherasco e lardo. E veleggiare quindi sul Tirreno con una triglia accompagnata da un boccone di midollo. A far da contorno non solo la precisione nelle cotture e l’attenzione alle consistenze, ma tutto un vasto corollario di fondi, salse e jus che sono un tripudio di classica precisione (la salsa al riccio di mare che accompagna il carpaccio di cappasanta; il fondo al vino rosso che sposa la già citata triglia; il jus che si accorda alla sella di coniglio). E quindi infine il piglio d’estro: intrecciare lo zafferano, il pesce, il pane panko e la foglia d’oro nella «milanesa» (che chiaramente diventa un crocevia fra risotto giallo, pasta con le sarde e un omaggio a Marchesi); cuocere le orecchiette nel verjus; ‘soffiare’ la pelle della triglia e accostarla a un pezzo di indivia in agrodolce; rinfrescare il jus di coniglio con il basilico; trasformare la meneghina michetta in un altoatesino brezel

In un certo senso si può affermare che la tridimensionalità (geografica; storico-sociale; generazionale) che connota la cucina italiana, e la rende unica (mi limito a un accenno: il concetto meriterebbe una trattazione più ampia), viene interpretata appieno nella cucina del D’O: i piatti appaiono infatti come crocevia di storie, di precipitati e di esperienze. Ma – è bene ribadirlo – senza alcuna pesantezza di pensiero, senza alcuna apparente elucubrazione, senza alcun forzato intellettualismo. Ma con naturalezza.

Del sorriso dei ragazzi di sala si è già fatto cenno; della capacità e dell’empatia di Daniele Novati (che li dirige) e di Manuele Pirovano (che sovrintende la bella e intelligente cantina, ricca anche di numerose proposte al calice) si dice ora. I menu sono quattro e, citando le Lezione americane di Italo Calvino, sono denominati «Esattezza», «Molteplicità», «Leggerezza» e «Armonia» (offerti a un prezzo che va da 155 a 200 euro). Ma… un difetto D’O ce l’ha? Sì! Mentre a pranzo, durante la settimana, è abbastanza facile trovare posto, anche prenotando pochi giorni prima, a cena invece è quasi impossibile, se non prenotando con larghissimo anticipo. Le alternative? Sperare che qualcuno disdica all’ultimo momento. O accomodarsi a uno dei tre tavoli di Olmo, la nuovissima insegna che Oldani ha aperto giusto di fronte a D’O. Una cucina completamente a vista; un unico menu degustazione («Radici», a 120 euro); e tanta voglia di raccontare quali siano le ‘radici’ (ma poi anche il ‘fusto’ e i ‘rami’) dal quale traggono linfa Oldani e il suo D’O.

  • D’O
  • Piazza della Chiesa, 14
  • Fraz. San Pietro all’Olmo – Cornaredo (Mi)
  • Tel. 02.9362209
  • www.cucinapop.do
  • prenotazioni@cucinapop.do
  • Turno di chiusura: lunedì; domenica
  • Ferie: variabili